11/1/2021
Trapassati dal silenzio.… prese il Bambino tra
le braccia e benedisse Dio. (Lc 2,28) Dio concede a Simeone molto più di quello che gli aveva promesso, perché non solo può vedere, ma anche toccare e abbracciare il Messia atteso così a lungo, e in quel momento, avendo toccato il Salvatore, il suo desiderio è compiuto, non ha da cercare null’altro. L’esperienza di quest’uomo, Simeone, precisa la cornice dell’accoglienza del Bambino nato a Betlemme. Proviamo a osservare il senso del nostro andare al presepe a partire da questa prospettiva scoprendone le pieghe nascoste che si presentano nei giorni natalizi (ma non solo, ovviamente). Il primo aspetto che potremmo scoprire arrivando alla sera della vigilia (di un periodo di feste, non dimentichiamolo) è la presenza ingombfrante delle nostre distrazioni, cioè di quanto ‘possiede’ lo spazio interiore. Potremmo, dunque, scoprirci più fragili, più esposti a una certa dose di … vuoto. Quell’intimità che nella frenesia di una vita di corsa appariva così agognata fa l’effetto di una doccia fredda. La prima reazione al vuoto è una certa assenza di rumori, di suoni; ma non è il silenzio. Scambiare il vuoto con il silenzio è un abbaglio: il silenzio è esperienza sonora e vitale. Il vuoto è quello che cerchiamo di coprire con il bisogno di fare (non è casuale che uno degli idoli del nostro tempo sia il lavoro) che in genere crea per lo più rumori, raramente suoni. Attraverso il nostro fare ci creiamo un’identità di cui non possiamo fare a meno e chi ci divora come un parassita. Ecco perché il vuoto fa parte del primo contatto con Dio; è una strettura che occorre attraversare perché con Dio non si può chiudere il pugno, occorre aprire il palmo della mano. Il contatto con Dio ha una dimensione fisica, è un modo di percepire noi stessi a partire dall’abbandono e non dal possesso. I testi canonici del Nuovo Testamento non ci trasmettono parole dette vicino alla mangiatoia, le uniche parole sono quelle degli angeli (che, si sa, parlano soprattutto al cuore); ma forse proprio può iniziare un percorso per andare lontano perché il silenzio é quanto di più vicino esiste, nel nostro mondo, al Verbum. ‘Parola di Dio’ purtroppo è un’espressione diventata logora, associata inevitabilmente a prediche infinite, a documenti ecclesiastici inutili e sbrodolanti. Occorrerebbe sempre ricordare che nel silenzio, nel nostro silenzio, agisce il Verbum. Come? Ricordiamo che il cuore dei pastori all’annuncio della nascita di Gesù si era turbato; questo è il primo gradino del silenzio. Siamo presi da un turbamento perché, a motivo del peccato originale, il nostro cuore, la nostra mente sono abitati dal caos, possiamo usare le parole di san Tommaso: visus tactus gustus fallitur. I sensi di solito sono ingannati dal primo contatto con il silenzio, perché sono contratti in se stessi, viaggiano su un’altra dimensione: quella di un soddisfacimento che tenta di neutralizzare la transitorietà delle cose, di noi stessi. La prima reazione a questa esperienza è la fuga. Non è un caso che gli Angeli invitino i pastori a non temere (e si sentirà questo invito anche al momento dell’Ascensione). Di per sé il meccanismo della fuga non è negativo, piuttosto è indicativo: segnala che stiamo entrando in una terra sacra dove occorre togliersi i sandali (il primo passo, la prima difesa da abbandonare). Possiamo fuggire (in negativo) nel senso di scappar via (concretamente o riempiendoci la vita con l’iperattivismo), ma possiamo fuggire (in positivo) nel senso di calmare i sensi con piccole attività che possano abituare con dolcezza e lentamente il nostro orecchio interiore, una specie di terzo orecchio al quale non siamo abituati e che invece è lì per ascoltare, entrare in dialogo con l’Altro. Ci troviamo di fronte due strade, in entrambe, avrebbero detto i padri del deserto, possiamo renderci conto di quanto siamo deboli ed esposti. Iniziamo ad osservare dentro di noi come un gioco di ombre, le ombre sono proiezioni di aspetti della nostra anima; forze della luce e dell'oscurità che faticano a trovare un equilibrio. Fermandoci ad osservare ciò che succede ci rendiamo conto di essere come di fronte ad uno schermo; un po’ come i pastori a Betlemme che guardavano in cielo i messaggeri di Dio e si sentivano turbati. Anche i Magi percorrono la medesima esperienza. E’ interessante l’incontro dei Magi con Erode; due esperienze a confronto: i Magi seguono un richiamo, la loro ricerca è scevra da pregiudizi, priva di calcoli; con Erode siamo di fronte a qualcuno offuscato da un bisogno che acceca l'anima che lo spinge ad assolutizzare se stesso ponendo le basi di esperienze rovinose e devastanti. Sono pochi coloro che accettano di confrontarsi con il vuoto, immediatamente nasce la necessità della compensazione, ma se il silenzio è quanto di più simile a Dio, il percorso riserva ancora qualche tappa. Se, infatti, siamo riusciti a calmare visus tactus et gustus (e in fondo bastano piccole cose), i sensi si adattano velocemente, ma resta il … palcoscenico interno. Mai come nella nostra epoca le immagini hanno avuto tanto peso. Il nostro vivere è scandito dalle immagini che si depositano nel profondo della mente e che spesso, senza che ne siamo realmente consapevoli, assumono vita propria creando un’abitudine, una costrizione neuronale si potrebbe dire, in grado di dominarci quasi interamente. Abbiamo mai fatto caso che si parla sempre meno di emozioni e sempre e più di eccitazioni? A volte la carica d’immagini necessaria per restare a galla è sempre più elevata. Internet, sotto questo aspetto, è la cartina di tornasole di come abbiamo ridotto la nostra mente, Rinunciare alle immagini è un po’ come rovistare al buio in un baule più o meno polveroso.: che ne verrà fuori? Questa è la prima domanda, ma potrebbe essere un inganno. Sappiamo che ci possono essere tante cose, ma che importa, il problema è un altro: possiamo rinunciare all’idea di aprirlo? E’ veramente la cosa più importante aprire e conoscere sempre tutto? Questa specie di costrizione alla conoscenza ci ripara dal venire immediatamente a contatto con una sensazione di vuoto interno che può determinare sensazioni sgradevoli, un capogiro,, perché le immagini non sono altro che prodotti fantastici per lenire un’assenza. Cos’è dunque il nostro vuoto se non un vagare dentro di noi alla ricerca di qualcosa/qualcuno in compagnia di ombre che non riusciamo ad afferrare? A questo punto, se si accetta di ‘soffrire’ questo vuoto, di sopportare l’aspetto della Medusa siamo pronti per la prima tappa: la conoscenza di noi stessi, la scoperta della nostra oscurità. Abbiamo tutti una mente educata, oggi soprattutto nella chiesa, in modo illuministico, crediamo di dover far luce. La luce verrà da sé (per coloro che giacevano nella regione e nell’oscurità della morte apparve una gran luce Mt 4, 16b), se si riesce a tenere in mano queste tenebre interiore, dopo la paura, lo sgomento, il bisogno di fuggire la prima cosa a cui la nostra mente si aprirà è … la percezione della maestà di Dio. Appena approdati a questa riva, dobbiamo confrontarci con una realtà di cui, oggi, non vogliamo assolutamente sentir parlare: il peccato del mondo. Occorre essere chiari su questo punto; spesso ci perdiamo dietro tanti peccati, anche inventati, per confrontarci con un’irriducibilità che noi, uomini post cristiani, non tolleriamo più: la presa di coscienza dell’assoluta sproporzione tra Dio e noi. Proprio lì s’inserisce la superbia, la nostra debolezza più grande, da cui derivano tutte le debolezze, anche quelle più criminose. Quando ci si avvicina a Dio e, invece, non ci si lascia vincere dalla vertigine, ma, calmi, ci rendiamo disponibili alla percezione della Sua infinità, a poco a poco, ne saremo curati perché tutto trae origine da Lui e solo da Lui. Il resto è illusione! Cos’è nella sua essenza il dolore se non la distanza che si frappone tra il Creatore e la debolezza della sua creatura. L’antidoto alla polverizzazione del poco che rimane della Fede non può che giocarsi in un incontro concreto con Dio. Il silenzio, nella sua radicalità, a volte cruda, ma sempre concreta, è il linguaggio divino che ci apre, per grazia, la porta alla conoscenza di chi siamo noi e che nulla c’è oltre Dio. Come i pastori a Betlemme saremo abbarbigliati da uno splendore divino (Lc 2,9) e questa è perfetta letizia. Condizionati a dover parlare, dire, spiegare, intervenire, sempre e su tutto ci perdiamo il mistero: il Natale è la lezione di silenzio che Dio stesso, il Verbum infans, continua a offrire, perché, precisamente, il silenzio è quanto di più vicino esiste, nel nostro mondo, al Verbum. … affinché di molti cuori restino disvelati i pensieri. (Lc 2, 35b) |