7/6/2021
Come un pescatore di perleCon il tocco di levità e bontà che lo caratterizza, sant’Aelredo di Rievaulx (Ɨ 1167) scriveva che l’uomo creato a immagine della Trinità, tratteneva Dio nella memoria senza dimenticanza alcuna e lo riconosceva nella conoscenza senza errore, purtroppo, però, l’uomo ha perso sé e Dio e l’errore annebbia la conoscenza.
Nell’epoca della Parola di Dio sperimentiamo una singolare dissonanza tra il nostro parlare di Dio e l’eco vuoto con cui questo parlare risuona dentro di noi. Come se ci ritornasse in bocca, ferendoci. Se nel fondo della memoria il sigillo di Dio è ineludibile, è pur vero che è malleabile e, intorno, a sua protezione, cresce come un osso, quello che gli antichi padri chiamavano l’intelletto. Sant’Agostino considera l’intelletto quell’attività della mente attraverso cui l’anima percepisce, comprende e giudica le cose intellegibili alla luce divina delle verità eterne (De Trinitate 9,6,11). Siamo in un tempo di dolore, in cui rimanere nella chiesa è essere esposti a un’esperienza di morte spirituale il cui risultato è il venir meno della forza delle parole della Fede fino alla percezione emotiva del risuonare nel vuoto della stessa parola Dio. Siamo approdati a una forma di morte sacramentale. Il nostro cammino spirituale si sta manifestando come un percorso in cui l’assenza di Dio è la modalità paradossale del pensare Dio lasciandolo non detto, un’impossibilità di nominarlo. Per noi, per i quali l’inizio di tutto, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni, è In principium erat Verbum è forse la prova più radicale. La rotta che ha guidato per secoli la Fede dei cristiani è stata abbandonata, perduta forse per sempre, continue falle, continui fuochi mobilitano lo sforzo di quanti cercano di essere presenti a se stessi per mantenere lo sguardo di là degli errori, ai fuochi che incombono all’orizzonte, cercando di non affogare l’identità cristiana nell’aiuto per gli altri ed evitare almeno l’estinzione della compassione, quella per Dio. Soffocati attraverso una seduzione manipolatoria, minacciati di essere azzoppati dalle nostre paure, il nostro sguardo deve spaziare altrove, perché la mente sia pronta a ergersi per proteggere e custodire ciò che resta della Fede per non aderire alla disfatta. Nel fondo della mente, l’intelletto è così portato a confrontarsi con questioni inedite, fino al punto di domandarsi, ed è una profonda lacerazione interna, se sia ancora possibile vivere il Vangelo nella chiesa. In tanta desolazione come ritrovare la forza in Dio anche adesso? Il profeta Isaia ci ricorda: già da tempo ordinai queste cose. Fin dagli antichi giorni le preparai e ora le eseguo; né è venuta la distruzione delle colline fortificate e delle città munite (Is 37,26). Dicevano i nostri padri che la Fede, questo dono singolare di Dio, merita l’intelligenza, ma noi ne abbiamo vergogna perché abbiamo perso il senso di consolazione e commemorazione che nasceva dalla Fede, vittima ai nostri giorni di una forma di banalità sentimentale o strumento di decostruzione affidato agli specialisti della teologia. Un minimo di esperienza ci chiarisce subito che i nostri percorsi mentali sono delle fragili piste sempre esposte al leone ruggente che gira cercando chi divorare (1Pt 5,8) e l’intelligenza ha un bel da fare per fronteggiarne l’impatto. Rimangono come monito le parole di Evagrio Pontico (Ɨ 399) che i pensieri molestino l’anima o non la molestino, non è in nostro potere; ma che si attardino o meno, che scatenino le passioni o non le scatenino, ciò è in nostro potere (Trattato pratico cap. 6). L’intelletto non è chiamato a produrre idee come saremmo portati a credere dalla nostra cultura, ma a frugare tra i nostri pensieri per cogliere le tracce del punto in cui il percorso mentale devia e si smarrisce dalla sua ricerca di Dio. L’intelletto è un’arma di vita contro gli inganni che la nostra natura decaduta sempre deve affrontare. In solitudine, ed è esperienza comune, costatiamo che le nostre fantasie e i nostri pensieri si contraddicono, ci rendiamo conto che nessuno potrà mai sapere cosa stiamo veramente immaginando e pensando. Conoscere se stessi è addentrarsi in un mistero che si allarga ad ogni passo che facciamo. Cosa fare in un mondo che corre e prende in considerazione solo azioni incentrate sulla propria agenda? La chiesa, la cui maternità si esprimeva in modo singolare anche offrendosi come luogo di riposo e meditazione, luogo nel quale l’uomo poteva sperimentare convergenti il Tempo e l’Eternità, è lei stessa divorata dall’infernale rincorsa per aderire a quell’agenda. Per rispondere alla decapitazione di Dio avvenuta con la rivoluzione francese, si è affidata in un primo tempo a un concetto lieve e ingannevole: l’aggiornamento. Il razionalismo e moralismo che ne sono derivati, hanno soppiantato lo spazio in precedenza occupato dai misteri della vita cristiana. Il prodotto è risultato perfettamente logico, espresso anzi con terminologia a volte poetica, ma smarrito il contatto con la Tradizione comune, è stato inventato qualcos’altro, perfetto e coerente in apparenza, ma che ha perduto il tratto più vitale della Tradizione: la capacità di calmare/contenere la potenza deduttiva che spinge a ricostruire il mondo o la chiesa nel chiuso delle mente. Non siamo andati incontro a una nuova pentecoste, ci siamo tuffati nelle tenebre. Scegliendo la chiesa di porre se stessa al centro della vita cristiana ha solo aumentato il suo desiderio di consenso, allontanandosi dalla fede di Pietro che cammina sulle acque (Mt 14, 24-34) fino al punto di indurre il sospetto che la Fede nella certezza dell’unicità del Salvatore sia sgretolata. Il consenso del mondo è giunto, infatti, nel momento in cui è apparso evidente che il ruolo che la chiesa ha in fine accettato con convinzione è di assolvere il mondo dalla responsabilità della propria incredulità. L’uomo ha perso, così, sé e Dio e l’errore annebbia la conoscenza. Perché stupirci che pronunciare il nome di Dio sia come un bronzo che rimbomba. Qui sta la radice dell’impossibilità di nominarLo. Lo spazio del cristiano, di conseguenza, coincide con un deserto analogo ai tanti che hanno costellato il ‘900. Il suo cuore messo a nudo, lentamente privato di tutto; oggi anche della legge naturale sottoposta a revisione. La dimensione orizzontale assunta dalla vita cristiana è stata il rifugio di senso per coprire la propria nudità di fronte a Dio, per coprire la disperazione del Suo nome che risuona a vuoto. Riandiamo all’Antico e al Nuovo Testamento! Si compenetrano e forse, per ricominciare, è giunto il momento di aprirsi a una nuova forma di disciplina dell’arcano, un tempo praticata dai primi cristiani che, a differenza di quello che succede oggi, non sparavano i propri gesti nel tumulto per sentirsi vivi, ben sapendo che il rumore e l’apparire ossessivo nasconde la mancanza di fede, la sua non significanza. La prima parte dell’antico rito della Messa ne testimonia il ricordo. Il nostro abuso di Dio, di cui la nuova liturgia ne è la manifestazione tracotante, ci ha portati lontano da Lui e ora dobbiamo compiere un viaggio verso il luogo che ci è divenuto segreto a causa del nostro errore. Per far questo occorre lottare in solitudine con la continua confusione con cui siamo bombardati e dobbiamo trovare la forza di aprire le pagine della Tradizione, cercando frammenti in grado di poter vincere la nebbia, aggirare il lamento sempre pronto a rimpiangere un passato destinato a non tornare. Al nostro cammino a ritroso tocca confrontarsi, però, con la consapevolezza che dire Dio è un suono vuoto sulle nostre labbra. E’ un passaggio di umiliazione, un contrappasso per come abbiamo Lo abbiamo trattato fino a renderlo un prodotto della nostra mente, ma si rivela anche come occasione di riscoperta concreta del Mistero, della Trascendenza e, a partire dalla riverenza, come rottura dell’attuale volgarità. Non sottovalutiamo che l’anima è cosa delicata e solo Dio può toccarla, noi invece ne abusiamo, dimentichi che unicamente lo spirito che si affida a Dio, merita lo Spirito Santo e la Fede merita l’intelligenza perché colui che crede amando, meriterà di intendere quello che crede (cfr Guglielmo di St, Thierry, Lo specchio della fede, 16) Per noi è diventato un processo difficile perché comporta il non lasciarsi sopraffare dall’aria mortifera che respiriamo, Tutte le radici sono sradicate e tagliate e per sollevare l’impatto devastatore nella propria anima e in quella degli altri rimane lo sforzo di coltivare pensieri rivolti solo a Dio. E’ il piccolo resto, il momento in cui l’orizzonte si apre a un possibile significato rinnovato della parola ‘Dio’ che apra la strettura dell’anima, le tenebre profonde che l’hanno invasa e sperimentare un misterioso incitamento a pregare, pur nell’assenza delle parole, in una pura intenzione, come un varco in cui Dio è il soggetto e non c’è interesse a soffermarsi su noi stessi. In questi decenni di aggiornamento in cui Dio è apparso alla stregua di un piccolo maggiordomo imbarazzante, abbiamo completamento dimenticato la grande lezione dei Padri: lasciare essere l’Essere. Se Dio è l’Essere, noi non possiamo che essere su di Lui, ma, come si diceva, la modernità ha decapitato questa possibilità della vita soprannaturale innestata nell’uomo come l’unico farmaco realmente indispensabile e noi stiamo rispondendo con la distruzione sistematica della fede. Per il cristiano contemporaneo la domanda ascetica urgente ruota intorno alla disponibilità a lasciare alloggiare nella sua mente i pensieri di Dio, in un digiuno molto arduo: il digiuno dalla chiesa. Per vincere le tenebre di una conoscenza errata, costantemente, ogni volta che occorra, è necessario rivolgersi a Lui e riprendere pazientemente il nostro equilibrio. Questo lavorio è come rosicchiare un osso fino al suo midollo: Dio. Tollerare un lungo periodo (una vita intera?) d’impotenza a fissare completamente gli occhi intellettuali su Dio, quella nube ben conosciuta dagli ebrei che non esclude, però, che ogni tanto si senta, con un tocco secco che Dio è presente, sebbene non più dicibile. La solitudine della mente ci pone a contatto con l’oscurità delle sue illusioni con le tenebre che ne derivano, nelle quali siamo cresciuti. Le nostre parole, però, anche se ci sembrano un puro rivolgersi senza consolazione, rimangono sempre come una risposta alle parole di Colui, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose (Gv 1,3). I miracoli di Dio non avvengono sui giornali e in televisione, dove gli uomini di chiesa amano comparire, sono delicati, appunto, come la nostra anima. Quando tutto sembra perduto, in quei silenzi terribili dell’anima di cui, nel fracasso, è piena la modernità, se riusciremo a dimenticarci per un attimo in quel deserto, Dio risuonerà come un fruscio d’abiti. Nel processo di decomposizione della Fede che stiamo vivendo dobbiamo essere come il pescatore di perle descritto da Hannah Arendt: si cala nella profondità del mare, non per scavarne il fondo e riportarlo alla luce, ma per carpire agli abissi quanto di prezioso e raro posseggano, le perle e i coralli, e ricondurlo in superficie, questo pensiero si cala nella profondità del passato, ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e contribuire al rinnovamento di epoche ormai spente. Ciò che guida questo pensiero è la convinzione che, sebbene il mondo vivente sia preda della rovina del tempo, il processo di decomposizione sia tuttavia anche un processo di cristallizzazione. Nel fondo degli abissi, in cui affonda e si dissolve tutto ciò che un tempo aveva vita, alcune cose subiscono ‘dal mare un mutamento’ e sopravvivono in nuove forme e figure cristallizzate, immuni agli elementi, come in attesa del pescatore di perle che un giorno, scenderà fino a loro per ricondurle al mondo dei vivi. (Il pescatore di perle, Mondadori 1993). Il compito dell’intelletto è analogo a quello del pescatore di perle, si cala nel fondo della Tradizione e come colui che crede amando, scende nella profondità del passato esponendosi a ferite che straziano l’anima, ma che formano il fondamento della memoria come salvezza, allora merita di intendere quello che ha creduto. E’ un percorso di grande spogliamento, su una nave che si allontana dalla patria tanto amata, per ripristinare la vita, nella convinzione che qualcosa della nostra Fede rimane sempre e appare all’improvviso per confortarci: una chiesa diruta, un affresco, fogli di un libro, un volto… rimasti, lì, ad attenderci. *** Ti ho voluto esprimere queste considerazioni per eccitare la tua fede ad amare l'intelligenza spirituale, alla quale conduce la vera ragione e alla quale la fede prepara l'animo. (Sant’Agostino, Lettera 120) |