31/3/2021
Noli me tangereNella settimana che segue la ‘Domenica di Risurrezione’, nella Feria V (giovedi), si legge un celebre brano di Vangelo che ha ispirato grandi artisti. E’ l’incontro tra Gesù risorto e Maria Maddalena, raccontato dall’evangelista san Giovanni nel capitolo 20 del suo Vangelo in cui viene pronunciata la famosa frase: Noli me tangere (Gv 20, 17a) Non mi toccare!
Questa traduzione latina del Vangelo ha fatto presa sulla sensibilità dei cristiani e se ne trova traccia nei secoli in molte opere artistiche. Affrontando il testo, la prima osservazione non può che essere di autentica empatia; Maria Maddalena è tutta presa dal dolore per ciò che ha visto durante la Passione, per il dolore della perdita di Qualcuno che aveva colto con amore intenso il fondo della sua anima. Il suo gesto della mano è automatico, naturale, umano, ma forse ‘troppo’ umano. Gesù, infatti, commenta non sono ancora asceso al Padre mio (20, 17b). Nel Vangelo, Gesù tocca per dare aiuto agli uomini, ad esempio tocca gli occhi per guarire (Mt 20, 34/Mc 1,42), tocca i discepoli (Mt 17,7), il lebbroso (Mt 8,3), tocca con la saliva la lingua Mc (7,33), tocca la bara (Lc 7,14). Mentre si tramanda che la Vergine Maria abbia detto: Fate quello che vi dirà (Gv 2,5b); gli uomini toccano Gesù per ottenere qualcosa. Emblematico è il caso dell’emorroissa (Mt 9, 20-22/ Mc 5,025-34/Lc 8, 43-48), quando Gesù dice di aver sentito che qualcuno toccandolo ha fatto uscire da lui la forza. Un altro esempio celebre è quello dell’apostolo san Tommaso che se non tocca non può credere. Toccare ha un significato ampio: si va dal bisogno di rassicurare, di manifestare vicinanza, aiutare, a quello di controllare, possedere; in ogni modo sta a indicare una necessità e la centralità del corpo cha a Pasqua è redento. L’essere umano ha bisogno di toccare come conseguenza della caduta di Adamo, della sua scelta di trasgredire il comando di Dio di non toccare l’albero (Gen 3, 3b) e che, dopo di lui, qualifica ciascun uomo nella dissoluzione. Adamo poteva mangiare qualunque frutto, tranne il frutto dell’albero della scienza del bene e del male, poiché mangiandolo in qualunque giorno indubbiamente morrai (Gen 2, 17): comandamento che conteneva l’invito - salutare per Adamo - di riconoscere sempre la sua dipendenza da Dio, perché inìtium superbiæ hominis, apostatare a Deo (Ecclesiastico [Sirac] 10, 14). Come un neonato posto sul grembo della madre per essere sottratto, con il ‘toccare’, al senso di inermità che domina i primi istanti di vita, allo stesso modo l’uomo è posto nei confronti di Dio; non è forse questo il senso profondo del primo comandamento: Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi dalla terra di Egitto, dalla casa di schiavitù (Es 20,2). Come per il neonato il contatto con il corpo della madre rappresenta il primo atto mentale di riconoscimento di sé perché la sua cura amorevole e disponibile lo aiuterà a strutturarsi attraverso la relazione, così per l’uomo riconoscersi ad immagine e somiglianza (Gn 1, 26) di Dio è il primo atto dell’anima, talmente necessario che non può perderlo senza perdere la propria natura, destinandosi al peccato e al carico di angoscia che ne deriva (cfr s. Agostino, Ritrattazioni, lib. 2 cap. 24,2). La conseguenza della scelta di Adamo è ben illustrata nel versetto del Vangelo di san Giovanni che abbiamo sotto gli occhi; qui, infatti, si confrontano due tipi di corporeità, quella prima della caduta, luminosa, come sarà il corpo risorto di Gesù e quella dopo la disobbedienza, rappresentata da Maria Maddalena destinato a perire. Alcuni antichi lettori del testo di Genesi intendevano le famose ‘tuniche di pelle’ (3,21) come la carne mortale fatta per sé dall’uomo ormai mortale. L’unico esempio nella Bibbia di una corporeità paragonabile (forse) a quella del giardino dell’Eden, lo troviamo nel racconto dell’Annunciazione (Lc 1, 26-38); l’atteggiamento corporeo della Vergine Maria è stato illustrato in modo eccelso in miniature e dipinti: lo sguardo è abbassato, il mistero è in Lei; la sua risposta inversa all’atteggiamento di Adamo: fiat mihi secundum verbumm tuum. Incontrando il Risorto, Maria Maddalena esemplifica il gesto divenuto naturale per l’uomo dopo la caduta di Adamo: il bisogno del contatto fisico. A ben riflettere, però, questo gesto così umano quando si ha qualcuno di fronte che si ama, rimane precario. Toccare spesso rivela un bisogno di massima presenza, ma ci pone anche a confronto con un’estrema mancanza. A ragione san Leone Magno (Disc 2 Ascensione), interpretando questo passo, spiega come Gesù risorto ricordasse alla Maddalena l’illusorietà di toccarlo con il corpo fisico: quel modo di toccare non le avrebbe permesso di capire; Maria Maddalena avrà vera conoscenza solo dopo l’Ascensione, attraverso la fede. L’opacità dei gesti umani è balzata agli occhi in modo drammatico con l’insorgere del Covid-19: toccare (come respirare) è diventato possibile veicolo del morire e l’unica risorsa difensiva rimane il distanziamento. La situazione derivante dal virus appare ancora incerta; nella lingua della Bibbia, il concetto di morbo ha una radice lessicale che esprime l’idea di logos, di ragionamento. Ciò che viviamo dovrebbe essere occasione e sprone per comprendere che la pericolosità del virus non sta esclusivamente in quello che può fare al corpo, ma nell’aggressione all’anima; gli eventi naturali catastrofici, infatti, hanno questo di positivo: ci pongono di fronte all’abisso che ci sta davanti, la morte. In questo frangente le parole della chiesa ne svelano l’animo posseduto pressoché interamente da una salvezza ormai solo secolare: in questo tempo di oscurità e incertezze per la pandemia, appaiono diverse luci di speranza, come le scoperte dei vaccini! (Messaggio urbi et orbi, 25.12.2020) Tutta la sofferenza del mondo attinge significato in Cristo, ma in queste parole è dimenticato il legame tra la risposta alla pandemia e la reazione alla croce di Cristo. La nostra liturgia mette in scena funerali chiassosi che mimano la considerazione della cultura mondana che la morte sia cosa privata e vergognosa da rimuovere. Dopo decenni in cui la Giustizia di Dio è stata sostituita con la pastorale e la Misericordia di Dio con l’umanesimo integrale, la chiesa, il cui partner di favore non sembra più l’Invisibile, annaspa nelle forme con cui l’inganno ha preso corpo dentro di lei: dialogo rinunciatario, cristianesimo anonimo, opzione preferenziale dei poveri, teologia della liberazione, valori non negoziabili, ecologia integrale, amoris laetitia e ultima, la fratellanza universale ridotta a programma politico. Ciò che è spinto avanti è la presa di distanza dall’unicità di Gesù Cristo e viene da domandarsi: in un futuro forse non lontano saremo invitati a sottacere il nome di Cristo perché non sufficientemente inclusivo? Se queste sono ora le nostre radici, siamo destinati a fare la fine degli scribi di Salomone, sollecitati alla fuga per sfuggire alla morte (Talmud babilonese, 53a sukkah)! Cechi, però, perché scappavano là dove ci conducono i nostri piedi, cioè al cospetto della morte, come commenta Salomone (Ibidem). Da dove possiamo ripartire? Se non vi convertirete e non diventerete come bambini (Mt 18,3). Qual è la situazione del bambino? Nello sguardo dei genitori, in cui si rispecchia e matura, egli vede sia la luce sia la tenebra. La Bibbia possiede un Antico e un Nuovo Testamento, come a dire: il Dio che si è rivelato nell’Antico, si comprende nel Nuovo, ma il Dio del Nuovo è quello rivelato nell’Antico. Una grande pedagogia, che oggi si rifiuta in nome di un misericordismo che usurpa il posto di Dio. Tra i genitori e il bambino c’è un linguaggio: il bacio! E’ un toccare singolare tra esseri umani. Ha intessuto la nostra infanzia e sostenuto la nostra crescita. In tempo di pandemia se non è del tutto precluso, almeno è sospetto. Attraverso il bacio, diceva Platone con magnifica intuizione, abbiamo come l’anima sulle labbra (Ant. Pal. V/78); bacio sembra derivare da un termine greco che significa ‘mormorare’; un tempo si mormoravano le preghiere… oggi nelle chiese questo mormorio è perlopiù sostituito dagli schiamazzi perché ci siamo atrofizzati nel pensiero e nella parola. Ti bacio con il bacio della mia bocca (Cantico dei Cantici 1,2) dice l’autore del testo più amato dai grandi spirituali della tradizione cristiana. Vi leggevano in trasparenza il rapporto singolare tra il Padre e il Figlio. Come ogni parola in uso all’uomo non è univoca. Il bacio, come diceva san Bernardo, è da chiedere con insistenza mostrando riverenza perché forse Dio non è da baciare, ma da adorare (Serm. 8 Super Cantica). Oggi è diventata una virtù esibita l’irriverenza, ma quando manca la riverenza appare un altro bacio, quello di Giuda (Mc 14, 44). In quest’epoca di calamità – non di povertà e fame, ma di abbondanza, sazietà e ghiottoneria, anche dei Sacramenti – dovremmo riscoprire Dio in questo mormorio. Sarà molto duro perché abbiamo perso la riverenza e di conseguenza non riusciamo più a comprendere il timore reverenziale. San Benedetto nella sua Regola (c. 53) vuole che l’anima del monaco che occupa uno dei posti più delicati, quello di portinaio, cerniera tra mondo e monastero, timor Domini possidet. Perché? Come un bimbo di fronte alla forza che percepisce nel padre sperimenta un momento di sgomento che, dove regna serenità, la natura spinge a superare ponendo con fiducia la sua mano in quella paterna, così il cristiano sperimenta questo sgomento là dove Dio è presentato correttamente e la fede lo spinge nell’aiuto dell’Altissimo (Ps 90,1) ad abitare quel timore nella notte della vita. Bisognerà faticare molto per tornare alla capacità di provare sgomento di fronte a Dio, quello sgomento simile forse a quanto ci accadde avventurandoci nel nostro primo bacio. Nello sgomento, al modo di Maria Maddalena incontrando il Signore risorto, ci sarà data la grazia di riscoprire il timor Domini (che è altra cosa dalla paura) perché initium sapientiae timor Domini (Ps. 110, 10). *** Come Maria Maddalena oggi se ci affacciamo alla barca della chiesa troviamo … una tomba vuota, la Chiesa (che è il corpo di Cristo) è stata estromessa e lì dov’era, ora risuona una voce di parole confondenti. L’effetto sull’anima è soverchiante. Noli me tangere, non mi toccare. Vorremmo toccare la Chiesa, come Maria Maddalena volle toccare il corpo risorto, ma sarebbe un’illusione come lo fu per lei. Ascendendo al Padre, Gesù ci ha lasciato qualcosa nell’anima, la memoria di Dio. E’ lì che dobbiamo restare per sperare di vedere il Cielo non seguendo chi viene per menarci a l’altra riva.
1/3/2021
In una strettissima speloncaAi tempi del liceo, quando faticavo su Plutarco e Svetonio, mi venne voglia per la prima volta di prendere in mano i Dialoghi in cui san Gregorio Magno (Ɨ 604) ci ha lasciato la celebre Vita di san Benedetto (Ɨ 547).
E’ una biografia antica, priva del nostro sguardo freddo e disincantato sui fatti; un percorso tra quadri, ognuno dei quali lascia un segno nella memoria; una traccia che ritorna a galla, un volto amico che ti sostiene nel tempo perché Benedetto e Gregorio sono uomini che avevano sperimentato quello che scrivevano, tutto. Il Benedetto che avviciniamo ci attrae attraverso una corporeità non posta in evidenza, ma che intesse un dialogo sotto traccia con il lettore. I tempi vissuti da Benedetto erano assai tormentati (come quelli di Gregorio Magno quando scrive) e il suo viaggio di formazione finisce bruscamente appena iniziato: lasciata Norcia, arriva a Roma ma, visti i compagni che cedevano sulle strade dei vizi, non volendo precipitare nell’orrido abisso e, preferendo rinunciare agli studi, … se ne fuggì. Gregorio dice con più precisione: ritrasse il piede (Dialoghi II, Roma, Città Nuova, 2000, II.I,1); un gesto spontaneo che si compie quando ci si vuole preservare da un pericolo che minaccia la nostra integrità fisica. Alla minaccia della disgregazione, Benedetto si preserva con la difesa primitiva dell’allontanamento fisico. Gregorio non interpreta male, non è forse la Regola scritta da Benedetto uno strumento, un complesso di indicazioni operative (buone opere) per tentare di evitare la disgregazione, la dissomiglianza con Dio? Secoli dopo san Bernardo né comprenderà profondamente lo spirito: “la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza. L'anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta (Super Cantica, 83,2).” San Benedetto si allontana da Roma, come potremmo fare anche noi, non per abbandonare la Fede, ma per preservarla. Fugge da un orrore. Gregorio racconta: Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, località ricca di fresche e abbondantissime acque … si incontrò per via con un monaco di nome Romano, che gli domandò dove andasse. Conosciuta la sua risoluzione, gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivestì quindi dell'abito santo, segno della consacrazione a Dio, lo fornì del poco necessario secondo le sue possibilità e gli rinnovò la promessa di non dire il segreto a nessuno. In quel luogo di solitudine, l'uomo di Dio si nascose in una strettissima spelonca (Dialoghi II, II, 3-4). Il luogo verso cui si dirige, il celebre Sacro Speco, era una spelonca strettissima, le rocce aspre all’interno delle quali si nasconde, diventano il simbolo fisico dell'orrore non solo di Roma, ma anche di ciò che ogni uomo scopre in sé e dal quale fugge, ma con il quale Benedetto intende misurarsi. Non da solo - non facciamo nulla da soli – perché abbiamo necessità della mediazione e dell’aiuto dell’altro; per Benedetto, l’altro, è un monaco incontrato per caso. Si chiama Romano (ma guarda te che nome gli dà Gregorio); gli offre l’abito monastico, un segno di non abbandono; Benedetto non andrà alla deriva, si è allontanato da Roma, non dalla Fede. Non c’è traccia di un eventuale suggerimento offerto a Benedetto di legarsi al monastero di Romano, comunità non irrilevante se anni dopo Gregorio ricorda ancora il nome dell’abate: Adeodato. Romano è lo strumento per non cadere nell'orrore, diventa per Benedetto guida all'orrido che vuole affrontare: un insostenibile senso personale di perdita e vuoto. Rivestirsi dell’abito monastico è un ripercorrere in qualche modo il percorso del battesimo, dove si riceve una nuova veste per ricoprire la nudità, simbolo del peccato (Gn 3,7). Chissà se Gregorio con la fuga di Benedetto da una Roma corrotta (e non certo per la presenza, ormai debole, dei pagani!) ha in mente il giovane che sfugge nudo alle guardie che arrestano Gesù (Mc 14, 51-52)? Questo discepolo senza nome è un’affascinante ideale; la sua nudità è simbolo di libertà interiore (per esempio dai vizi romani, veri agenti di morte) e vuole seguire Gesù fino alla fine. La sua spogliazione, come quella intrapresa da Benedetto, è emblema del passaggio battesimale che riattualizza nel cristiano la morte e la risurrezione di Cristo. Racconta Gregorio che dal monastero di Romano però non era possibile camminare fino allo speco, perché sopra di questo si stagliava un'altissima rupe. Romano quindi dall'alto di questa rupe, calava abilmente il pane con una lunghissima fune, a cui aveva agganciato un campanello: l'uomo di Dio sentiva, usciva fuori e lo prendeva. (DII, I,5) In questo passaggio, d’indubbia bellezza letteraria, Romano, da sopra la rupe, fa scendere il pane; la lunghissima fune è immagine della profondità in cui è inoltrato Benedetto; dall’interno della roccia, Benedetto esce per accogliere il cibo. Romano, la rupe, Benedetto sono racchiusi nel grembo della valle, su tutto aleggia il silenzio che è il linguaggio di Dio e che, in quel momento, in quel silenzio, assiste e compie qualcosa nella loro vita. Benedetto sta camminando a ritroso verso il Regno dei Cieli, nel grembo della terra rinasce da capo (Gv 3,3), il suo è un affidarsi in primo luogo all’opera di Dio in lui. Forse nella necessità della rinascita di cui parla Gesù nel Vangelo di Giovanni, risiede la scelta di Gregorio nel definire arctissimum specum (strettissima spelonca) il luogo scelto da Benedetto: un’immagine per dare forma concreta a un’anima ancora in conflitto? La vita cristiana come utero: l’uscita dall’utero è un fatto naturale, ma non esente da insidie… Certamente lo è la scelta di Benedetto in quel momento; vivere in una spelonca espone a prove terribili e, infatti, nella Regola (RB I, 3-5) si preoccuperà di indicare la necessità di essere lungamente addestrati nel monastero con l’aiuto di molti prima di esporsi ad singularem pugnam eremi (al particolare combattimento dell’eremo). In quel luogo di solitudine, l'uomo di Dio nascosto in quella strettissima spelonca non sembra aver portato con sé qualcosa, sicuramente non aveva una bibbia tascabile (!), non si parla di libri. Li ha avuti da Romano? Non lo sappiamo; quelli erano luoghi poveri, i libri allora erano un bene molto costoso, difficilmente passava inosservata la scomparsa anche temporanea di qualche pergamena. In ogni modo, Benedetto ha nulla o poco più. Questo vuoto di cose lo porterà a scoprire una nudità ben più grande di quella esteriore; quante volte avrà trovato quello spazio strettissimo occupato da apatia, noia, spossatezza di anima e cuore … Avrà rimpianto, come gli ebrei nel deserto, l’orrore che l’aveva spinto lì e che non è facile da sopportare (tant’è che le immagini lo perseguiteranno, ma questo discorso porterebbe altrove)? Benedetto, scegliendo un simile luogo, accetta di convivere con la percezione di sé vista dall’interno di un abisso che fa toccare con mano, frequentemente, che siamo fragili come cristalli. Quante volte in quell’eremo avrà incontrato la luce fredda di un mattino che segue magari un brutto sogno. Quante volte avrà avuto l’impressione che stava per arrivare l’autunno con il suo passo di sciagura… Nel viaggio di ritorno alla Fede, quando si deve ricomporre insieme ogni cosa da capo, questo deve essere messo in conto; è l’abicì del ritorno, della conversione. Confrontarsi con il ribollio della mente, con le angosce che possono invadere l’anima, non è da tutti e per tutti e ne troviamo forse una traccia nella Regola, dove Benedetto pone l’accento a più riprese sulla necessità della ‘lectione divina’. Noi l’abbiamo spesso fraintesa: essa è in primo luogo e soprattutto memorizzazione! Non limitiamoci a motivarla con l’assenza … della luce elettrica; Benedetto ha sperimentato sulla sua pelle il confronto con i propri fantasmi, la necessità di dover far fronte a forze che appaiono soverchianti. La memoria è uno scrigno che emerge da un grande caos e solo Dio può infondere quiete, Benedetto ha imparato che memorizzando le parole bibliche (soprattutto i salmi) Dio pacifica la nostra mente e ripara la nostra anima. Noi abbiamo trasformato la lectio divina in una lettura meditata, cioè controllata dalla nostra mente, un esercizio in fin dei conti introflesso e oggi, sollecitati da molte parole vacue, abbiamo necessità di distanza e bonifica del teatro dell’assurdo nel quale ci siamo cacciati. Andiamo avanti! Gregorio Magno è maestro e ci propone un episodio da non lasciar scivolare via. Benedetto ha compiuto un cammino severo in quegli anni; si è posto nella situazione di non contare su nulla che non sia Dio. Scompare Romano, il suo angelo, e si trova solo: Lontano com’era dagli uomini, il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua (DII, II,7). Proprio in quel giorno, un impulso misterioso spinge un prete della zona che stava per iniziare il pranzo pasquale a cercare Benedetto nella sua solitudine. Gregorio non ha problemi a raccontarci che Benedetto non sapeva neppure che quello fosse il giorno di Pasqua… (Quindi non teneva conto neppure delle domeniche…). Siamo di fronte a un caso, non eccezionale per l’epoca, di massima esposizione al digiuno sacramentale. Non solo: Gregorio accenna al fatto che neppure il prete che lo va a trovare ritiene di dover celebrare la Messa per lui. Soffermiamoci sulla sequenza dell’episodio: spinto dallo Spirito del Signore il prete trova Benedetto e cosa fanno subito? Pregano insieme, benedicendo il Signore. L’irrilevanza della Fede, un tratto incoraggiato nel cristiano dei nostri giorni, ha come terreno fertile la perdita di consapevolezza della sacramentalità del mondo di cui l’antica liturgia, conservandone invece la purezza della Fede, ne era lo scrigno prezioso. Benedetto e il suo ospite incontrandosi, –subito- pregano, poi si siedono a conversare, poi mangiano; e non si preoccupano della Messa, nonostante sia il giorno di Pasqua… Abbiamo un ricordo di questo modo di procedere nella Regola (RB 53, 4-5) quando Benedetto chiede che la prima cosa da fare con l’ospite è pregare insieme. Stiamo andando verso tempi in cui la Messa (parlo di quella vera!) sarà un fatto rarissimo, così come la maggior parte dei sacramenti. O fuggiamo verso l’ennesimo manufatto liturgico (la domenica della Parola di Dio!) o riscopriamo le nostre radici. Il tanto di moda monachesimo del deserto era assai sobrio (assai) di sacramenti. Gregorio Magno non è certo tacciabile di poco senso liturgico, ma raccontando questi fatti ricorda implicitamente che i (sette) sacramenti sono innestati nella sacramentalità del mondo, nella presenza concreta del Signore, presupposto alla vita liturgico-sacramentale. Noi che abbiamo perso tutto, dobbiamo reimpararne l’alfabeto, da capo. Perché come prima cosa Benedetto e il prete pregano benedicendo il Signore? Hanno una consapevolezza (ormai perduta) che del Signore è la terra e tutto quello che la riempie; il mondo e tutti i suoi abitanti (Sal 23,1). Si commetterebbe peccato se, godendo del giorno di Pasqua, non si ringraziasse/benedicesse Dio: prima! Innanzitutto! In quel giorno di Pasqua, in quella vera e propria azione sacramentale, il mondo interiore di Benedetto aveva smesso di essere muto, solitario e conflittuale. Non verrebbe mai voglia di abbandonare la lettura di san Gregorio Magno. Immergendosi nella vita di Benedetto s’impara che per misurarsi con le battaglie dello spirito occorre apprendere una propria profonda calma interiore, quella che Gli permise di affrontare Totila come si affronta un raffreddore (DII XIV -XV). Gregorio Magno attraverso il suo racconto ci ha reso visibile l’operosità del tacere di Benedetto. Gregorio vive in tempi grami che lo mettono a dura prova, mangia anche Lui dal piatto della distruzione e il cuore della biografia di Benedetto è un messaggio da non dimenticare per comprendere il senso ultimo dell’essere cristiano: (Benedetto) spargeva amarissime lacrime (che) non accennavano a finire (e al discepolo disse) Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente, sono destinate in preda ai barbari. A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, mi siano risparmiate le vite (DII, XVII,1). Il segreto della vita cristiana è una strettura, ciascuno di noi ha un suo passaggio impervio, se non lo compie, rimarrà non percorso, nessuno potrà farlo al suo posto. E’ il punto dove si trova la Croce, dove si scartano cielo e terra, dove ha luogo il bacio del Signore. San Benedetto l’ha compreso e lo esprime con il suo corpo al momento della morte: I discepoli sostenevano con le loro braccia il suo corpo debilitato; egli si tenne così, ritto in piedi, colle mani levate al cielo, e tra le parole della preghiera fluì il suo ultimo respiro (DII, XXXVII, 2). … Gregorio Magno ha deposto la penna; i Suoi scritti sono stati l’arca che ha confortato la Chiesa nel tumulto del tempo; a un tratto li abbiamo considerati come il nostro passato. Che cosa sia il diluvio dell’impostura che si riversa sul nostro presente, non basta una parola per dirlo. |