Due giorni prima della Domenica delle Palme del 1132, circa gallicinium[1], nel suo letto Ugo, vescovo di Grenoble, che aveva almeno ottant’anni ricorda la biografia, avvolto nelle tenebre della demenza, era prossimo a morire; vicino a lui nei suoi ultimi momenti, commosso e sorpreso, Guigo I, priore della (Grande) Chartreuse.
In quegli anni Guigo stava scrivendo le sue Meditationes[2], brevi schizzi sui grandi movimenti silenziosi, ma determinanti, del suo mondo interno; non paragonabili però, ai nostri Giornali dell’anima che spesso testimoniano l’attenta costruzione di una carriera individuale. Privo della visione interiore – che è Dio (non perché non sia presente in te, ma perché il tuo sguardo interiore, cisposo, non riesce a scorgerlo) – esci volentieri, […] e puoi dedicarti - vuoto – ad ammirare i pensieri degli uomini. (n° 314). Il lavorio su se stesso disegna una mappa, una specie di cartografia dell’anima. Da qualunque punto s’inizi a leggerla sempre si è ricondotti ad unico centro: Dio, perché nulla si deve fare per se stessi se non conoscerlo e amarlo (n° 198). E’ il percorso di un uomo dall’individualità all’unicità. La nostra cultura ci ha reso prigionieri del principio d’individualità, un bisogno continuo di affermare il nostro ‘io’, uno stato mentale che consideriamo imprescindibile, che alimenta l’ansia di sfuggire al vuoto che ci attanaglia attraverso un attivismo continuo. Le Meditationes tracciano invece il percorso di un uomo intento ad abbandonare l’io e le sue pretese; la conclusione di questa spoliazione è il ritorno all’atto creatore di Dio, là dove non interessa più neppure che resti il proprio nome perché l’unica cosa che conta è la Sua chiamata creatrice; l’unicum necessarium custodito da Dio al momento della nostra morte in attesa della risurrezione del corpo. Guigo trasmette la sua emozione davanti al morire di Ugo. Quell’uomo, decenni prima, da giovane vescovo, aveva accolto e donato a san Bruno il massiccio di Chartreuse per rendere concreto su quelle montagne il suo sogno. Ancora nel momento della morte, pur nell’ammnesia, Ugo manifestava gesti di affetto. “Noi due ci siamo voluti bene!”. Erano possibili ormai poche parole a un uomo avviluppato nel silenzio indotto dall’infermità. La memoria affettiva, come sappiamo, sembra l’ultima a cadere in questa terribile malattia, allora rara, e che oggi tanto ci spaventa perché lì si sfascia l’arroganza dei nostri tempi. Le connessioni di amore che permettono a un essere umano di aprirsi e procedere nella vita sono il timbro di Dio, che è Caritas, cioè la sostanza di ciò che siamo fatti. Il Signore è più vicino a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi - “interior intimo meo et superior summo meo” (Agostino, Confessioni, III,6,11), la memoria ne è la traccia e noi ne abbiamo la responsabilità. Si potrebbe dire che abbiamo la responsabilità del conservare Dio in noi. Per Agostino la memoria è capacità della mente di conoscere sé e Dio in interiore homine (De vera religione, XXXIX, 72). Ogni essere vivente mantiene un colloquio con il suo Creatore, anche se lo vive nell’incoscienza, nel rifiuto o nello storcimento. Guigo, ricordando il vescovo di Grenoble, registra con stupore il mistero della memoria tracciandone un’anamnesi puntuale nel momento in cui nell’archivio della memoria di Ugo (memoria cellarium) si stava combattendo una guerra. Attraverso l’eccezionale violenza della medesima infermità era cancellata o intaccata quasi tutta la memoria […] Però quella parte della memoria dimenticata e confusa, quella parte che era stata impressa dal culto divino della verità e della giustizia in accordo con gli atti di pietà propri degli uomini santi e degli angeli, non solo la portava avanti come prima, ma la aumentava nella costanza e nel fervore (coll 779-780, 26-27)) Guigo ne tratteggia con pudore la decadenza mentale e non sottace le reazioni aggressive di Ugo, spesso frutto della percezione angosciosa della perdita di contatto con la realtà attraverso il venire meno della memoria che ben si conosce nelle persone con demenza. Ricorda gli sforzi del vescovo per farvi fronte attraverso le abitudini interiorizzate della liturgia: Quando aveva detto qualcosa che poteva aver ferito un servo, subito si percuoteva il petto e poi ripeteva innumerevoli volte il confiteor abituale nella celebrazione dei misteri (col 780, 27). Non solo, Ugo ripeteva notte e giorno il salterio perché in quei tempi non ancora abbondanti di luce e libri si era soliti totum psalterium impectorare e Guigo scopre, e ci ricorda, che anche nella cella della memoria attaccata dalla malattia ancora esiste un colloquio dell’anima con Dio. Le parole dei salmi ‘rese corpo’ (impectorare) erano ancora spazio per una comunicazione, così come la sua esperienza di solitudine nella cella della Certosa era lì a dimostrare, Una comunicazione in cui il silenzio dice a volte più delle parole; però, perché questo silenzio sia sonoro il presupposto indispensabile è che si abbandoni se stessi, allora i salmi diventano comunicazione dell’anima con Dio. Guigo ne offre una spiegazione: poiché Ugo si era dato con grande impegno agli studi e si era imbevuto della dolcezza della lode divina e del midollo della preghiera pubblica, quando quasi ogni cosa di cui era ricolma la memoria era stata vanificata, queste orazioni erano solide da non poter essere scacciate dalla sua mente con nessuna forza né dalla follia né da altra malattia (col 771, 32). La solitudine del cristiano contemporaneo, invece, spesso non è solitudine, ma uno schiantarsi, l’amara esperienza del distanziamento da Dio, non perché Dio si sia nascosto, ma perché noi ci siamo discostati dalla Sua presenza e, come Adamo sotto l’albero, abbiamo paura di Dio la cui voce è divenuta un fruscio che ci inquieta (Gn 3,8). Nell’incapacità di esplorare e tollerare questa distanza si è giocato il naufragio della chiesa. All’uomo che non trova più nella memoria la Fede e urla il proprio dolore, ne cerca il contenimento e ha necessità di un ascolto vivo, la chiesa ha rinunciato a trasmettere le parole di Vita eterna che dovrebbero essere la sua dimensione di umiltà, necessaria e indispensabile per ascoltarlo e sostenerlo. La chiesa, ormai smarrita, invece di ricordare all’uomo il luogo in cui sa di essere stato, ma a cui non riesce più a tornare perché ne ha dimenticato la strada, ha voluto costruire una strada aggiornata, fatta con le proprie mani, dimenticandosi lei stessa di quella che Dio le aveva affidato. Al posto di affermare ciò che E’, preferisce proclamare i suoi pensieri, la banalità di parole confondenti nascondendosi dietro la guerra alla tradizione, cioè alla memoria, che è la sua vergogna rimossa. Attaccare la tradizione è innanzitutto ferire la dimensione più profonda della memoria, quella affettiva; è come innestare all’interno dell’anima uno straniero che ruba le posate all’ospite che lo aveva accolto in una notte di tempesta. Porsi l’obiettivo di distruggere la tradizione non è altro che cercare di oscurare la luce spirituale e pervertire gli ultimi aneliti di verità e di bontà ancora presenti nelle rovine ormai labirintiche della memoria dei cristiani. La tradizione è l’immagine di Cristo incisa nell’anima, sedimentata nella memoria collettiva e personale, stravolgerla è stato come rubare l’innocenza a un bambino. Perché: cos’è la memoria se non il nostro farci incontro a Dio? Può chiarire una riflessione su un sogno di un grande contemporaneo di Guigo, sant’Anselmo di Aosta (Ɨ 1109). Anselmo era cresciuto tra le montagne quando udì che su in cielo c’era un unico Dio che reggeva ed abbracciava tutte le cose, immaginò che il luogo in cui si trovasse la corte di Dio fosse la cima delle vette e cha si potesse raggiungere attraverso i monti. Dopo averci rimuginato su a lungo, una notte gli capitò di fare un sogno in cui doveva salire sulla sommità di una montagna e di affrettarsi verso la corte di Dio … Mentre il ragazzo stava entrando, il Signore lo chiamò. Si avvicinò e sedette ai suoi piedi. Con cordiale affabilità gli fu chiesto chi fosse, da dove venisse e cosa desiderasse. Egli rispose com’era in grado alle domande[3]. Questo sogno è uno spaccato efficace sul formarsi e sulla dinamica della memoria. È in primo luogo un’immersione corporea nella realtà, come in genere avviene nello sviluppo umano. Bisogna essere nati e cresciuti nelle Alpi per comprendere cosa possa comportare per la mente di un bambino alzarsi al mattino e ritrovare come compagne le montagne e dover piegare un po’ la testa di fronte alla finestra per scoprire se la cima è visibile oppure nascosta da nubi. Occorre essere stati naturalmente orientati a dover sempre guardare in alto e aver avuto la grazia di trovare qualcuno che indica con naturalezza la maestà di Dio al punto che diventa un passaggio naturale immaginarlo assiso sul monte più alto… Questa è stata la prima esperienza di Anselmo bambino, nel fondo della sua memoria si è depositata un’immagine precisa e radicata in un’esperienza sviluppata dalla coscienza del proprio corpo, della propensione affettiva e dell’insieme dell’immaginazione. Come può sorprendere poi se questo primo slancio verso Dio si è fuso in un’impronta mnemonica, un’esperienza concreta di Dio mista d’inaccessibilità, curiosità e desiderio? Da adulto Anselmo rivisiterà quanto in lui si era costituito da bambino e attraverso un processo riflessivo sofferto si presenterà alla sua mente un ‘argomento’ sul quale tanto hanno faticato grandi menti di filosofi: O Signore, noi crediamo che Tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande[4]. Riuscirà, cioè, a definire che Dio esiste sia nell'intelletto sia nella realtà come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Coltivare la memoria è una grande responsabilità perché una vita cristiana è una vita che abita spiritualmente, una vita che ci è data non dagli uomini ma dall’Alto, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare, secondo un modello che non possiamo creare noi, neppure imitando il passato, ma che possiamo solo abitare, hic et nunc. In questi anni la nostra memoria è ferita profondamente e la mente si trasforma in un sepolcro vuoto. La memoria, però, è sopravvivenza; se noi accettiamo di farci dissolvere in una religiosità liquida e universale, sorge l’oblio; prendiamo perciò le distanze da chi vuole posare su di noi il velo dell’oblio, sarebbe l’anticamera della morte. Agostino diceva: La memoria è, per così dire, lo stomaco dell’anima e la gioia e la tristezza sono, in un certo modo, cibi dolci e amari; una volta affidati alla memoria, come se fossero transitati nello stomaco, possono esservi posti in serbo, ma non possono avere sapore (Confessioni, X, 14,21). L’aggiornamento al quale siamo costretti è un po’ come il bisogno di avere sapore, abitare spiritualmente, invece, è in primo luogo fare spazio all’Altro e la soluzione non è una nuova liturgia, una nuova evangelizzazione e adesso una nuova legge naturale. Questo ci ha condotto sull’orlo di un abisso di fronte al quale è diventato di tutta evidenza come occorra un enorme sforzo affinché Dio non sia espulso dalla nuova folla di pensieri che stanno occupando il nostro mondo interno e che solo in apparenza sono ‘cristiani’, ma in realtà sono intrisi di spirito secolare. La memoria oggi è una chiamata alla responsabilità. Non è più il tempo per dipendere dagli altri. L’obbedienza a Dio non è simile alla sottomissione a regole o a uomini, ma è la conversazione con Dio nel momento della brezza della sera (Gn 3,8). La responsabilità è riconoscere che ciò che abbiamo, lo abbiamo da Lui, ma ciò che facciamo di ciò che abbiamo dipende da noi, dalle nostre scelte e dal nostro impegno. Questo non è un equilibrio facile da raggiungere. È più facile e comodo vivere una vita di dipendenza. Ciò che possiamo fare per Dio è coltivare la memoria anche in condizioni di ostilità, attraversare le fiamme dell’inferno e riemergerne con l’anima intatta e in questo modo raggiungere dignità e responsabilità. La memoria è un dono di Dio che richiede una grande cura, coltivarla oggi nella chiesa di Roma è attraversare un deserto spaventoso, dove il miraggio, la tentazione sottile indotta è che la chiave per comprenderlo, era un’illusione. Dio sembra privarci della chiesa materiale per spingerci a confrontarci con le illusioni che la abitano. In altri tempi molti scelsero di andare nel deserto, scoprendo poi che non era facile avere il deserto nel cuore, perché anche le preghiere, le veglie e i digiuni mantengono una certa ombra di ricerca di sé. Oggi invece il deserto al cristiano è infuso dentro, pronto all’uso, senza doversi inventare penitenze perché il mondo, al quale la chiesa ha venduto la propria anima, è fatto in modo tale che non gli si possa donare solo qualcosa perché pretende tutto. L’impressione è che si stia lavorando per ottenere la disintegrazione dell’identità cristiana. Siamo condotti a vederci morire in quanto cristiani, prova al limite della follia, prova insopportabile, se non fosse la medesima prospettiva che già Cristo sulla Croce ha vissuto vedendosi morire. Se ne siamo sospinti, perciò, può rappresentare un dono, allarmante, ma pur sempre un dono. *** Si racconta che quando i Turchi espugnarono Costantinopoli nel 1453, nella basilica di santa Sofia si stava celebrando la divina liturgia. Gli Angeli, che sempre vi assistono, in quel tragico momento si resero visibili e, aprendo le colonne della chiesa, vi fecero entrare i presenti con la promessa che ne sarebbero usciti il giorno in cui Costantinopoli fosse tornata cristiana. Quelle colonne sembrano simboli della memoria nella quale dobbiamo rifugiarci nel momento in cui la Chiesa è espugnata. Sarebbe un bel modo per fronteggiare la tempesta, … un’opera di pura Grazia. [*] Dante, Divina Commedia, Inferno, 2,8 [1] Al momento del canto del gallo. La vita di Ugo scritta da Guigo si trova in: Migne, Patrologia Latina, 153, coll. 0759 - 0784D [2] Guigo certosino, Meditazioni nel silenzio, Il leone verde, Torino 1999 [3] Eadmero di Canterbury, Vita di sant’Anselmo, Milano, Jaca Book 1978, I,2 pag. 36 [4] Anselmo d'Aosta, Monologio e Proslogio, Milano,: Bompiani 2002 |